venerdì 21 marzo 2008

Le carte truccate

C’è una polemica che in questi giorni fa molto arrabbiare i piccoli boss di partito, quella sul voto utile. Ma cos’è sto benedetto voto utile? Non è così semplice come appare a prima vista, c’è un inganno subliminale che va smascherato sennò si rischia di fraintendere. La prima cosa da mettere bene in chiaro è questa: utile per chi? Utile a chi? E qui la risposta non è difficile: utile a loro, a tutti loro, ai concorrenti, ai candidati, agli aspiranti al tanto agognato seggio parlamentare, utile sicuramente a chi corre per agguantare la poltrona dorata. Inutile per tutti gli altri, inutile per tutto il resto. Quindi, partiamo da un dato incontrovertibile: per come sono messe adesso le cose, andare a votare il 13 e 14 aprile è un po’ come andare a giocare al video poker. La filosofia di fondo è sostanzialmente uguale: tu t’impegni, tu ci metti i soldi, tu ci credi e il banco vince sempre. Sai benissimo che non vincerai mai e che invece sarai puntualmente fregato, però giochi lo stesso. Se non fosse cosa reale di un paese reale, sembrerebbe di stare al manicomio. Mi si dirà che questo è un discorso qualunquista, che così si esalta l’antipolitica, che le grandi democrazie funzionano tutte in questo modo. Rispondo in modo diretto e univoco a tutte queste obiezioni con una sola efficacissima parola: balle. Balle colossali. Il qualunquismo (che non sto qui a spiegare per i più giovani. Studiassero piuttosto invece di ubriacarsi, drogarsi, diventare pericoli pubblici per se stessi, per gli altri e pensassero loro a darci una classe dirigente migliore in futuro) era sì un movimento che attaccava le istituzioni democratiche, ma lo faceva al solo scopo di conquistare un suo spazio autonomo e la sua brava quota di poltrone, un po’ come fanno Grillo e Pancho Pardi con la loro fuffa cosmica. Per quanto riguarda l’antipolitica, non ce n’è una migliore di quella esercitata dai partiti e dallo spettacolo indecoroso che danno in questa corsa al privilegio di casta. Non è vera neanche la terza obiezione: tutte le democrazie, quelle vere, sono costruite a misura delle società che servono, di cui fanno, tendono a fare, il bene. La nostra è costruita contro i cittadini a cui si chiede solo il voto, a solo beneficio di una casta di parassiti inetta, inoperosa, incapace, inefficace, sostanzialmente disonesta. Qualcuno pensa che qui si esageri? Vogliamo parlare allora della storia dei rifiuti in Campania? C’è una classe politica al mondo capace di provocare lo stesso disastro? Dove? O davvero vogliamo credere che quello sia il risultato di una parte sola? Che sia colpa solo di Bassolino? Vogliamo parlare di come stanno svendendo l’Alitalia ai francesi, mica per cattiveria, proprio perché non sanno che pesci pigliare? Vogliamo parlare di come hanno ridotto le nostre casse pubbliche, la nostra sanità? Vogliamo parlare delle code, delle file d’attesa, di mesi quando non di anni, per avere un esame medico o diagnostico? Vogliamo parlare di come hanno ridotto i nostri stipendi, oramai utili a comprare qualcosa solo fino alla metà del mese? Vogliamo dire della nostra giustizia, incapace di giudicare equamente nessuno ma capacissima di sbattere in galera per anni un povero padre con la sola colpa di aver perso due figli in un incidente? Di che vogliamo parlare, di cosa stiamo parlando? Questo Paese non ha più una classe politica, ammesso che ne abbia avuta una in passato, solo una massa informe di chiacchieroni incapaci. Prima se ne rende conto, prima dice basta, prima smette di giocare a questo gioco con carte truccate, più in fretta risolverà i suoi problemi e tornerà nel novero dei paesi civili. In caso contrario nessuno s’illuda: il fondo deve ancora venire.

giovedì 20 marzo 2008

Momenti di vergogna

In questi giorni, gli italiani che si andavano convincendo a votare il PD di Walter Veltroni, hanno ricevuto l’ennesima botta di delusione. Questo dinamico e brillante movimento, fatto da idee nuove, gente nuova, proposte nuove, simboli nuovi, costosissima sede nuova è invece capeggiata da un logoro pensionato della politica. Un navigatore di lunghissimo corso, bravo più a blaterare che ad agire. Questo lo si sapeva già, Uolter non ha mai brillato per efficacia amministrativa e gestionale, a differenza di quanto sia stato fulgido nel pianificare la sua carriera di cineasta fallito prestato alla politica italiana, luogo in cui i falliti della società hanno sempre trovato scampo e rifugio. Un pensionato, dunque. Va bene. Uno, però, si chiede: sarà pure pensionato, ma che lavoro ha fatto? Quanti contributi ha versato? E, cosa più ancora rilevante, quanto prende di pensione al mese? Ha fatto il deputato in parlamento per una decina d’anni e per altri due il ministro. Per queste sfibranti attività, oggi percepisce la somma di quasi seimila (diconsi 6000) euro al mese. La cosa buffa è che, a sentirlo, quei soldi non li voleva, è stato quasi costretto con la forza a prenderli. Questa è l’Italia di oggi: a fronte di un esercito di pensionati con retribuzioni da fame che vorrebbero qualche monetina in più a fine mese, c’è uno che invece è inseguito da una pensione che rifiuta, che non vuole. Una pensione che lo perseguita e che alla fine decide di devolvere agli affamati d’Africa. Quando si dice un Paese impazzito. Ma chi ha denunciato quest’ ignominia? Quale cittadino sensibile alle necessità altrui ha messo il dito su questa disuguaglianza intollerabile? Beppe Grillo? Macchè, Gianfranco Fini. E chi è costui? Presto detto: é un fratello gemello del Uoter appena menzionato. Uno che di euro al mese ne guadagna ventimila, più o meno, che gode di prebende e privilegi vergognosi e che, al solo scopo di gettare fango sull’avversario in campagna elettorale, denuncia il male altrui senza guardare se stesso allo specchio. L’unica differenza fra i due è che il primo percepisce una pensione d’oro, mentre l’altro un’indennità di platino. Questione semplice di denominazione, mentre il grosso dei cittadini di questo paese ottiene salari neanche di ferro battuto, neanche d’alluminio anodizzato, solo da fame. C’è un deputato uscente dei verdi, un giornalista giovane e brillante, protagonista anonimo per due anni della vita dorata di palazzo e che oggi ne rifugge schifato, che sta pubblicando su Libero il resoconto di quella parentesi di vita. Basterebbe leggere per decidersi a disertare in massa le urne e iniziare scioperi della fame, della sete, del sonno, della parola, del silenzio. Questo è chiaro che non avverrà, siamo un popolo che si divide fra autolesionisti e masochisti. Le nuove categorie della democrazia italiana, altro che destra e sinistra. Altro che progressismo e liberalismo. Destinati a vedere smembrate, svendute, alienate le nostre ricchezze, vedi l’Alitalia tanto per fare un esempio, mentre ci accapigliamo per riempire ancora una volta le nostre istituzioni democratiche di nababbi nullafacenti, nullapensanti, spesso ignoranti come le capre, spesso dediti alla ricerca di paradisi artificiali, spesso amanti dell’alcova a pagamento. Pagamento a carico del popolo.

mercoledì 19 marzo 2008

Ricordiamo anche questo

E’ difficile trovare qualcuno che non ricordi cosa stesse facendo la mattina del 16 marzo 1978. Fu una mattina di sangue, di orrore, di autentico sgomento nazionale. Un calcio allo stomaco di un intero paese. Un gruppo armato aveva appena trucidato cinque uomini e rapito il presidente della DC Aldo Moro in via Fani a Roma. Quell’atto fu un punto di non ritorno e significò la presa di coscienza, da parte di un Paese distratto, dello stato di guerra civile in cui viveva da almeno un decennio. Non è mia intenzione rievocare la storia di quegli anni, altri lo hanno fatto in questi giorni molto meglio di quanto potrei fare io. Mi limito a ricordare il sacrificio di cinque uomini umili di cui si è sempre parlato poco, cosi come si parla sempre poco degli umili, dei servitori, di tutti coloro che nel corso dei secoli hanno fatto da scudo alle barbarie con la semplicità della loro vita perduta. Quel che ancora m’indigna di quella vicenda è che di loro non si parlò più nei due mesi successivi, mentre tutti si scannavano fra le ipotesi di fermezza o di trattativa. Neanche Aldo Moro ne fece cenno in quel mare di lettere e di scritti che si preoccupò di inviare a tutti nel disperato e un po’ patetico tentativo di salvare la sua vita. E questo, come ho già sottolineato, ancora m’indigna. Onore ai caduti del terrorismo, nella speranza di non rivedere mai più uomini e donne macchiati dal sangue innocente sedere in parlamento, predicare nelle televisioni pubbliche e private, insegnare nelle università, scrivere sui giornali, scrivere libri catartici di falso pentimento. Moro non era un grande statista, così come ancora si tenta di far credere, Moro era un potente democristiano del sud colto e furbo. Chi lo sentiva parlare di politica rimaneva sbigottito più per la scarsità dei concetti afferrati, compresi che per altro. Parlava di “equilibri avanzati”, di “convergenze parallele”. Concetti stravaganti che avevano un solo significato: prendere il mondo comunista e traghettarlo, in un modo o nell’altro, nell’area di governo. Quell’idea inorridiva sia la parte occidentale sia la galassia comunista capeggiata dalla grande madre Russia, e non è difficile capire i motivi di tanto orrore. Solo in Italia inorridivano in pochi, per il semplice motivo che in pochi avevano capito la portata nefanda di quella politica. I più terrorizzati stavano naturalmente oltre la cortina di ferro e non è da escludere che quel rapimento e quella morte trovasse la sua occulta regia proprio da quelle parti, ma qui mi fermo, la storia si complicherebbe troppo per trattarla nell‘ambito di questo scritto. Mi preme solo ricordare che proprio in quegli anni si sviluppò il grave cancro sociale che ancora ci troviamo ad affrontare: quello del debito pubblico causato da una forte politica della spesa, tesa sì ad allargare i diritti e le tutele, ma poi sfociata negli anni in una tremenda mangiatoia madre di tutte le corruttele, genitrice di disuguaglianze e privilegi vergognosi il cui frutto avvelenato è questa casta maleodorante di parassiti di stato chiamata classe politica.